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Si parla in continuazione del ruolo benefico e preventivo dell’attività fisica in senso astratto e generale, con ricadute e ripercussioni grossolanamente note anche ai non addetti ai lavori. Molto meno di frequente ci si rapporta con l’attività fisica in termini di vero e proprio trattamento terapeutico o come adiuvante di altre forme di terapia farmacologica o in ogni caso di ordine medico.
Quando ci si confronta con situazioni particolari e che esulano dalla norma (intesa come numero di circostanze statisticamente più frequenti), l’attività fisica necessita un adeguamento mirato ai soggetti cui si rivolge. Si vedrà successivamente che in realtà il concetto di norma e di evento statisticamente più frequente è tecnicamente fallace e l’attività fisica correttamente proposta (meglio dire prescritta) è pressoché in ogni caso di tipo adattato.
Quest’ultimo termine introduce perfettamente quelle che sono per definizione le attività fisiche adattate (AFA), ossia dei protocolli specifici studiati per quelle che sono definite popolazioni speciali. Classificare le “popolazioni speciali” oggigiorno è complesso, o perlomeno molto più complesso rispetto alla nascita dell’attività fisica adattata, databile nel 1800, per consentire lo svolgimento di attività fisica ai soggetti non vedenti. In tale circostanza l’individuazione dei destinatari di questo “nuovo” tipo di approccio fu semplice e fortemente circoscritta. Dopo l’introduzione dell’educazione fisica come materia scolastica obbligatoria (nella prima metà del 1900), emerse la necessità di rivedere i concetti al fine di poter elaborare e proporre una forma di attività fisica per soggetti con differenti abilità, nell’ottica propria dello sport di essere inclusivo e non esclusivo.
L’APA (Adapted Physical Activity) nasce ufficialmente nel 1970 con lo scopo di prevedere programmi motori che tenessero conto del più ampio numero possibile di disabilità. La naturale evoluzione dell’APA (o AFA) ha portato alla sua applicazione in termini preventivi e in alcuni casi di vero trattamento terapeutico, travalicando (sebbene non ancora a livello formale) i confini della sola prevenzione e miglioramento delle capacità funzionali residue.
Prescindendo dai limiti formali, che ancora incontrano grandi resistenze creando limitazioni drammatiche nell’applicazione dei protocolli, le evidenze scientifiche hanno da tempo confermato che l’attività fisica è a tutti gli effetti una forma terapeutica applicabile in un ampio numero di patologie croniche:
- Patologie correlate alla sindrome metabolica (insulinoresistenza, diabete di tipo 2, dislipidemia, ipertensione arteriosa, obesità);
- Patologie cardiache e polmonari croniche (BCO, cardiopatia ischemica, scompenso cardiaco cronico, arteriopatia periferica);
- Patologie dell’apparato muscolo-scheletrico (osteoartrosi, artrite reumatoide, fibromialgia);
- Altre patologie: cancro, depressione, asma, ecc.
Proseguendo con l’inevitabile necessità di chiarire alcune definizioni, l’attività fisica incide pertanto in termini di prevenzione primaria, secondaria e terziaria, ciascuna delle quali fa riferimento a:
- Prevenzione primaria: interventi su soggetto sanio al fine di mantenere le condizioni di benessere che lo caratterizzano evitando l’insorgenza di malattie;
- Prevenzione secondaria: interventi su soggetti ammalati e stabilizzati aventi lo scopo di determinare la guarigione e/o ridurre le ricadute e l’aggravio del quadro clinico e sintomatologico;
- Prevenzione terziaria: relativamente a malattie croniche e/o irreversibili rispetto alle quali si offrono interventi finalizzati a evitare la comparsa di complicazioni tardive o esiti invalidanti successivi, ma anche un miglioramento della qualità della vita mediante la conservazione delle capacità funzionali residue.
Fatte salve altre e ulteriori categorie (in seguito indicate), tutte le volte che ci si relaziona con azioni di prevenzione secondaria e terziaria si ha a che fare con soggetti appartenenti ad una popolazione speciale, si sta pertanto applicando una forma di attività fisica adattata (di seguito semplicemente AFA).
Sebbene l’AFA sia quindi un protocollo specifico studiato per le popolazioni speciali, classificare queste ultime definendo chi vi appartiene è oltre che complesso un processo mai esaustivo. Se “classicamente” possiamo affermare che appartengono a questo gruppo gli anziani, i soggetti con disabilità fisica e/o cognitiva), i soggetti in età evolutiva, le donne in stato di gravidanza, gli obesi, ecc., tecnicamente la lista oltre ad essere più lunga è in costante accrescimento. Accrescimento connesso sia alla individuazione dei benefici dell’attività fisica su precise classi di popolazione, sia per la nascita di nuove situazioni (anche figlie della modernità) che in passato non erano individuabili. Quindi nel gruppo delle popolazioni speciali è possibile inserire malati di cancro, soggetti con DCA, diabetici, ma anche tossicodipendenti, detenuti, ludopatici, individui affetti da dismorfofobia, soggetti con disabilità situazionale, depressi, ipertesi, ecc. Una lista lunghissima.
Quando si parla di protocolli specifici per le popolazioni speciali è possibile operare un ulteriore distinguo tra:
- AFA (Attività Fisica Adattata) orientata a soggetti stabilizzati a seguito di patologie neurologiche, muscoloscheletriche, osteoarticolari;
- EFA (Esercizio Fisico Adattato) per soggetti stabilizzati a seguito di patologie croniche di tipo coronarico e metabolico.
Fatta questa necessaria distinzione, in questa sede si parlerà in modo generico di AFA includendo in tale definizione anche l’EFA senza più fare distinguo. Inoltre parlando di AFA, in accordo con le precedenti premesse, si farà riferimento sia all’attività fisica adattata in senso proprio, ossia con specifico riferimento agli interventi di carattere motorio orientati verso la prevenzione secondaria e terziaria delle patologie, incluse quelle età-correlate ed eseguite in contesti non medicalizzati; sia alle circostanze in cui si adotta l’attività fisica adattata pur in assenza di condizioni patologiche (es.: gravidanza, età evolutiva, ecc.), quindi con un approccio che è possibile definire estensivo. Sono esclusi dall’AFA i soggetti con instabilità clinica o con sintomatologia acuta o post acuta.
È possibile affermare che esiste quindi una definizione tecnica di AFA e una sua reale modalità applicativa molto più estesa in termini di target di riferimento e obiettivi/popolazione raggiungibile. Tali differenti modalità interpretative hanno confini molto labili determinando continue modifiche e integrazioni. Al momento l’AFA è un farmaco ad ampissimo spettro che non può essere definito come tale. Se tuttavia si vuole attribuire un simile determinante onore, occorre ricordare che al pari di un “comune farmaco”, anche l’AFA possiede:
- una posologia;
- una modalità di somministrazione;
- effetti specifici;
- controindicazioni ed effetti indesiderati, anche correlati ad eventuale sovradosaggio, scelta inidonea della tipologia, intensità e frequenza.
Le malattie croniche
Le malattie croniche in senso generale sono una vera emergenza mondiale, determinano oltre 60 milioni di decessi annui nel mondo, di cui il 63% dovuto a malattie non trasmissibili, il 25% a morti premature (età inferiore ai 60 anni); 48% malattie cardiovascolari; 21% tumori; 12% malattie respiratorie croniche, 3,5% diabete. Le malattie cosiddette non trasmissibili (NCD) potrebbero presto divenire la causa del 70% delle morti in tutto il mondo. I quattro principali e fondamentali fattori di rischio per le NCD sono proprio il fumo, l’alcol, le diete insalubri e l’inattività fisica. Si stima che in Italia le NCD determinino il 77% degli anni di vita persi e il 75% dei costi sanitari sostenuti.
Se l’inattività fisica è al quarto posto tra le principali cause e fattori di rischio per NCD, nel caso delle popolazioni speciali la sedentarietà è sia causa che effetto della condizione, pertanto ad esempio è causa dell’obesità, ma come conseguenza di questo stato si riduce ulteriormente la pratica di attività fisica, e pertanto di aggrava la condizione di obesità, in un circolo vizioso con esiti spesso fatali. Si stima che la sedentarietà da sola aumenti sino al 30% la mortalità per ogni causa rispetto a chi svolge una media di mezz’ora di attività fisica quotidiana.
Tra i vantaggi diretti si annoverano, a puro titolo esemplificativo, una riduzione del rischio cardiovascolare, ipertensione, diabete, cancro del colon e della mammella, stati depressivi, dell’obesità e delle patologie ad essa correlate. La costanza nella pratica motoria è il miglior metodo non solo per scongiurare tutto ciò che è prevenibile, ma anche per lenire tutto quello che è inevitabile (come l’invecchiamento). L’appartenenza ad una popolazione speciale infatti, come più volte già ribadito, non implica infatti lo stato di malattia, la gravidanza ad esempio è una condizione assolutamente naturale e fisiologica.
L’avvio di un protocollo di attività fisica adattata deve passare per step comuni (che molto spesso ricalcano l’iter classico dell’approccio con l’attività fisica prescindendo che si tratti di AFA o meno):
- Individuazione delle peculiarità fisiche, emotive e cognitive determinate dalla condizione di appartenenza del soggetto ad una specifica popolazione speciale;
- Analisi dell’eventuale grado di compromissione dell’efficienza fisica;
- Valutazione dei benefici attesi;
- Misurazione dei parametri oggettivi in ingresso;
- Misurazione dei parametri oggettivi in itinere;
- Personalizzazione delle attività in termini di intensità dello stimolo, tipologia, volume dei allenamento ecc.
Può essere altrettanto utile, e talvolta indispensabile:
- Valutate i parametri antropometrici standard (peso, statura, BMI, circonferenze corporee);
- Sintesi anamnestica (stile di vita e abitudini alimentari, patologie pregresse e recenti, terapie farmacologiche in corso).
- Esame clinico (parametri cardiopolmonari, ROM articolari, test per l’equilibrio e la coordinazione ecc.)
- Talk test, scala di Borg, ecc.
AFA in età evolutiva
Nel corso dell’età evolutiva l’attività fisica coadiuva l’adeguato sviluppo dell’apparato osteoarticolare, muscolare e delle capacità motorie, è universalmente noto che stimola e consolida la socialità e il benessere psichico. Mai come in questa fase storica si rivela determinante al fine di controllare il peso corporeo, con effetti positivi su tutto il distretto cardiocircolatorio e respiratorio. Per tramite dell’attività fisica si possono acquisire corrette abitudini alimentari che più agevolmente accompagneranno nel corso della vita, compresa una minore probabilità di fumare o abusare dell’alcool.
I benefici non si limitano alle prestazioni motorie, ma grazie all’effetto transfert ottimizzano le capacità cognitive, lo sviluppo e il consolidamento dei tratti della personalità e della fiducia in se stessi, ottimizzano i legami affettivi e il senso dell’altruismo e rispetto dell’avversario. Permette di controllare l’aggressività e di sviluppare relazioni sociali, in linea generale promuove i processi di crescita e l’acquisizione di una gerarchia di valori.
La Division of Nutrition and Physical Activity and Adolescent and School Health in età scolare consiglia un’ora di attività fisica giornaliera, per l’OMS bambini e ragazzi tra i 5 e i 17 anni dovrebbero svolgere almeno 60 minuti al giorno di attività moderata-vigorosa con anche l’inclusione di almeno 3 sessioni settimanali di allenamento della forza.
L’attività fisica potrà essere adattata a seconda della specifica età del soggetto, tenuto conto della maturità biologica più che di quella anagrafica, passando dai 6 ai 9 anni ad un approccio che da giochi sportivi con regole semplificate, stimolo degli schemi motori di base, diviene sempre più “acrobatico”, fino all’acquisizione dei primi gesti tecnici verso i 12 anni, che diviene ulteriormente strutturato verso i 15, con l’aggiunta di una specifica preparazione fisico-atletica con carattere eventualmente agonistico.
AFA in età adulta e anziana
Nella fase adulta e anziana l’attività fisica conserva un ruolo determinante per mantenere un buon grado di autosufficienza, migliorare equilibrio e coordinazione al fine di evitare il rischio di cadute, ritardare il processo di invecchiamento, l’insorgere dell’osteoporosi, della sarcopenia, ma anche la riduzione delle facoltà cognitive o l’insorgere della depressione. E’ un’ottima soluzione per gestire le displipidemie, contrastare l’ipercolesterolemia, l’aumento di peso e le problematiche cardiocircolatorie.
Spesso per l’anziano si scelgono forme blande di esercizio fisico, che non determinano alcun vantaggio sostanziale, lo stimolo dovrà essere sempre proporzionale alle reali esigenze e capacità residue, poiché uno stimolo sottodimensionato non determina adattamenti. La sedentarietà nell’anziano favorisce le patologie miofasciali e osteoarticolari croniche, l’alterato assetto posturale, e la ridotta mobilità. Tutti questi fattori hanno ripercussioni sulla sfera emotiva e sociale, e possono incidere in modo gravoso sull’isolamento e la depressione che accelerano esponenzialmente il processo di invecchiamento.
In età adulta e anziana si raccomandano almeno 150 minuti di attività moderata o 75 minuti di attività vigorosa, sessioni di lavoro almeno bisettimanali e sollecitazione dei parametri di forza con i maggiori gruppi muscolari. Come per giovani e giovanissimi occorre distinguere tra età anagrafica ed età biologica, sebbene per l’OMS siano tecnicamente definiti anziani gli over 65.
Troppo spesso viene loro proposta una attività sottodimensionata rispetto alle necessità, al grado di prestazione fisica in ingresso, ai miglioramenti che si intendono raggiungere e ai margini di allenabilità. Si dimentica che il condizionamento è specifico per gruppo muscolare sollecitato, per il sistema energetico chiamato in causa, e per il gesto che si compie. Non è ad esempio possibile allenare la forza, e i benefici correlati, con lavori blandi e carichi inferiori a quelli agevolmente gestibili. Per il timore di fare troppo, quasi sempre si fa troppo poco, con un atteggiamento tutt’altro che professionale da parte degli operatori, troppo influenzati da pregiudizi e luoghi comuni.
Anche i muscoli di persone over 60 possono procedere a interessanti adattamenti, che permangono sino alla soglia degli 80 anni, soprattutto per individui che hanno iniziato una regolare pratica sportiva sin da giovani.
Certamente occorre considerare che i processi di adattamento saranno più lunghi, tanto più per chi giunge in condizioni di piena sedentarietà, pertanto la progressione del carico dovrà essere più graduale, i movimenti andranno accuratamente selezionati escludendo nei limiti del possibile movimenti di flessoestensione e rotazione del rachide cervicale, così come fasi di volo, respirazione compressiva, ecc.
Con l’avanzare dell’età si assiste purtroppo ad una progressiva compromissione delle masse muscolari, che è misurabile già dopo i 30 anni soprattutto nei distretti corporei degli arti inferiori, giungendo ad un sostanziale dimezzamento a 90 anni, con una compromissione che riguarda in modo più marcato le fibre veloci che divengono pari a 1/3 delle fibre totali, con un sostanziale dimezzamento rispetto all’età adulta. Tutti parametri che concorrono ad una riduzione del parametro di forza, cui si associa la capacità di reclutamento e sincronizzazione delle fibre muscolari. La compromissione delle fibre muscolari non è solo di tipo numerico, ma anche in rapporto alle dimensioni iniziali. Di conseguenza, oltre al parametro di forza, anche la massima velocità di estensione è compromessa, e già dai 45 anni si avvia un graduale declino che accelera dopo i 70 anni. Tutti questi processi sono tanto più marcati quanto maggiore è il grado di sedentarietà, viceversa un soggetto attivo e allenato, conosce una condizione di compromissione molto lieve nel periodo dai 30 ai 60 anni, con un decadimento fortemente ridotto anche nelle decadi successive.
Oltre al contrasto della sarcopenia, non meno rilevanti sono gli aspetti connessi alla prevenzione e riduzione dell’ipertensione, il contrasto della demineralizzazione ossea, il miglioramento della sensibilità insulinica. Sebbene, come intuibile, il precoce avvio all’attività massimizza i vantaggi anche nel lungo periodo, anche un tardivo avvicinamento all’attività fisica riduce le cause di morte negli anziani in misura pressoché analoga rispetto a chi è sempre stato attivo (effetti maggiori sono correlati con il momento in cui si inizia ad essere regolarmente sottoposti ad allenamento). Analogamente soggetti attivi che hanno smesso di praticare attività da adulti, hanno avuto tassi di mortalità simili a chi era sempre stato sedentario. In tutti i casi gli effetti seguono un meccanismo dose-risposta e sono pertanto correlati all’entità, frequenza, tipologia e volume di lavoro, sottolineando che il rischio di sottodimensionare il lavoro è normalmente superiore al rischio di una sua eccessiva somministrazione.
I soggetti più attivi hanno un minor rischio di morte anche in relazione ad altre cause quando l’intensità del lavoro svolto diviene prossima o superiore agli 8 METs si registra un dimezzarsi dei rischi connessi a ipertensione, ostruzione broncopolmonare cronica, diabete, danni da fumo di sigaretta, colesterolo, patologie BMI correlate, rispetto ad una pratica di esercizio fisico a 5 METs o inferiore.
Negli anziani l’attività fisica opera sulle 3 forme di prevenzione indicate in precedenza: in termini di prevenzione primaria riduce tra l’altro del 50% la probabilità di cancro al colon, in termini di prevenzione secondaria e terziaria riduce del 26% la mortalità cardiaca e del 28% la mortalità coronarica in soggetti colpiti da infarto acuto del miocardio (IMA) che hanno subito interventi di angioplasitca o bypass coronarico. In senso più generale riduce gli stati infiammatori cronici che sono premessa per numerosissime patologie oltre che innesco di situazioni cancerose.
Come per tutti i casi AFA, oltre che una particolare attenzione in ciò che viene proposto, e alle modalità con le quali si propone, occorre prestare attenzione ad alcune circostanze, al verificarsi delle quali è necessario interrompere immediatamente il lavoro e valutare il parere del medico. Tra queste l’eventuale alterazione del respiro o della frequenza cardiaca, una sensazione di affaticamento sovradimensionato, dolori insoliti e stati edematosi degli arti inferiori. Sarà ovviamente imprescindibile conoscere a monte eventuali indicazioni mediche soprattutto in relazione ai farmaci eventualmente assunti e le loro interazioni con l’attività fisica.
AFA e obesità
L’obesità è una condizione caratterizzata da un importante accumulo di grasso corporeo con le conseguenti gravi ripercussioni sulla salute. Le cause fondamentali sono riconducibili ad alimentazione ipercalorica, ridotto dispendio energetico e quindi scarsa attività fisica. Di conseguenza essendo questi tutti fattori modificabili, la condizione di obesità è ampiamente prevenibile e trattabile. Malgrado ciò rappresenta uno dei primi problemi a livello di salute pubblica in tutti i paesi cosiddetti sviluppati, essendo tra i principali fattori di rischio per numerose malattie croniche, dal diabete alle forme tumorali e problematiche cardiovascolari. Basti pensare che proprio alla condizione di obesità sono riconducibili il 44% dei casi di diabete di tipo 2, il 23% dei casi di cardiopatia e, per alcune forme tumorali, valori superiori al 40%. Rimuovere la causa, significa ridimensionare drasticamente tali effetti avversi talvolta con conseguente nefaste.
Pur con i limiti noti, il BMI resta il più semplice, immediato e utilizzato strumento per la valutazione e classificazione del sovrappeso che è tale, secondo l’OMS, per valori compresi tra 25 e 30; è da considerarsi come obesità di grado medio per valori di BMI sino a 35, e obesità di grado severo oltre il valore 35. In Italia, secondo il monitoraggio “Okkio alla salute” il 22,9% dei bambini tra gli 8 e i 9 anni è in sovrappeso e l’11% in condizioni di obesità, con una tendenza ad aggravarsi. L’obesità è ampiamente più diffusa verso le classi sociali più basse e con minore scolarizzazione, e in senso generale se ne sottovaluta il rischio percependone spesso solo un problema estetico che, come la punta di un iceberg nasconde rischi tumorali, steatosi epatica, ipertensione, osteoartrite, ictus, infarto, diabete, sindrome metabolica ecc. Le regioni del centro-sud sono quelle col maggior tasso di obesità e sovrappeso sia tra gli adulti che tra i bambini, in termini percentuali nella fascia 25-44 anni, il 14% circa dei soggetti obesi ha la licenza elementare, circa il 9% la licenza media, senza significative differenze tra maschi e femmine. Differenze che invece emergono analizzando, per la medesima fascia di età, gli obesi tra chi possiede il diploma superiore e chi possiede una laurea, in entrambi questi casi gli obesi tra gli uomini sono il doppio rispetto agli obesi tra le donne, queste ultime con una percentuale del 3,5% per le diplomate e di appena superiore al 2% per le laureate.
L’intervento dimagrante su soggetti obesi riduce l’ipertrofia adipocitaria, ma non interviene sul numero di adipociti posseduti, anche per questa ragione l’intervento precoce o meglio la prevenzione, resta uno dei migliori approcci oltre ad essere il più efficace nel tempo. L’intervento nei confronti del sovrappeso deve svolgersi su 2 fronti: quello dell’alimentazione e quello dell’attività fisica, e quindi ad una riduzione calorica in ingresso (valutata da un nutrizionista) deve associarsi l’incremento in uscita attraverso l’attività fisica (anch’essa sotto il controllo di professionisti del settore).
L’attività fisica stimola la lipolisi, incrementa i livelli di testosterone con ripercussioni sulle masse muscolari e, a cascata, sulla sensibilità insulinica e sull’incremento del consumo energetico, preserva le strutture muscolari nel corso del calo ponderale, favorisce il dispendio energetico e ottimizza i substrati d’accesso attraverso gli adattamenti che si riverberano sull’efficienza degli enzimi ossidativi. Non ultimo stimola il rilascio di irisina, un ormone capace di indurre lo switch delle cellule adipocitarie da bianche a brune. Gli adipociti bianchi sono le comuni strutture di deposito adiposo, povere di mitocondri e ricche di trigliceridi, aggravano l’assetto lipidico, lo stato infiammatorio e la resistenza all’insulina, sono particolarmente localizzati nella regione addominale e viscerale. Il grasso bruno al contrario è rappresentato da adipociti ricchi di mitocondri, metabolicamente attivi e capaci di dissipare energia sottoforma di calore, prevengono l’insulinoresistenza e lo stato infiammatorio cronico. L’attività fisica quindi non si limita a far “dimagrire”, ma crea le premesse per evitare nuovi incrementi di peso o squilibri metabolici e lipidici. In tal senso l’attività fisica ottimizza l’assetto lipidico e quindi il rapporto LDL/HDL (colesterolo cattivo/colesterolo buono), stimola il rilascio di endorfine, riduce i valori pressori, stimola la formazione di circoli arteriosi collaterali.
Come facilmente intuibile, anche in questo caso vi è un effetto dose-risposta secondo cui la riduzione di massa grassa è proporzionale alla spesa energetica settimanale, così come sebbene la sola attività fisica possa contribuire alla perdita di peso, l’associazione con un corretto regime alimentare ottimizza e accelera il processo oltre a prevenire le ricadute. L’esercizio fisico non associato ad un regime ipocalorico difficilmente si rivela sufficiente per un calo ponderale, viceversa la combinazione dei fattori non concorre solo alla perdita di peso, ma ottimizza selettivamente l’impiego delle masse adipose. L’optimum è dato dall’associazione di esercizi di forza, con l’ausilio dei sovraccarichi, abbinati a lavori aerobici, che creano un elemento determinante anche per il consumo energetico al di fuori delle sedute di allenamento, elemento che si soma ad un migliore rapporto tra massa grassa e massa magra. Su soggetto obeso il protocollo di AFA parte da una fase di condizionamento generale, prosegue con specifiche attività aerobiche e contro resistenza, e nel lungo periodo può prevedere un miglioramento delle performance atletiche.
Sebbene vi siano evidenze di numerose discipline ad alta intensità utili nel sovrappeso, nel caso specifico è assolutamente necessario avere una progressione differente, che preveda principalmente attività aerobiche a bassa intensità (intorno al 40% circa del VO2max) per tempi relativamente lunghi e superiori ai 30/40 minuti. In una fase avanzata e successiva sarà possibile prendere in considerazione altri tipi di lavoro. In ogni caso è opportuno un lavoro di alta frequenza, con almeno 5 sessioni settimanali della durata di 30/45 minuti cui associare, come già detto, un lavoro proporzionale con i sovraccarichi. Nella prima fase del lavoro, ossia nei primi mesi, i principali adattamenti relativi al muscolo riguarderanno la capacità di reclutamento delle unità motorie, l’incremento della frequenza di scarica (entrambi parametri connessi con l’incremento della forza), successivamente inizierà lo stimolo ipertrofico e a cascata si innescheranno adattamenti e miglioramenti ulteriori che includo gli assetti posturali, la coordinazione, l’aspetto cardiocircolatorio, il desiderio di muoversi al di fuori di un contesto organizzato e, non ultimo una migliore percezione del proprio corpo e ricadute positive sull’umore.
Come già segnalato per l’AFA in soggetti adulti e anziani, anche nel caso di soggetti in sovrappeso sarà fondamentale tenere da conto i frequenti problemi che con essa correlano e le eventuali terapie farmacologiche in corso, in particolare le terapie per il diabete per le conseguenti fluttuazioni glicemiche, l’eventuale assunzione di betabloccanti per gli effetti sulla frequenza cardiaca, un quadro di ipertensione che suggerisce di evitare lavori isometrici e respirazione costrittiva, eventuale proteinuria (proteine nelle urine) per effetto della quale è opportuno limitare i lavori da svolgere in piedi. Ma numerose altre circostanze possono caratterizzare il soggetto obeso, ragione per la quale la collaborazione con il medico è imprescindibile, prima, durante e dopo la programmazione del lavoro.
AFA e cancro
La drammatica condizione per la quale il soggetto è affetto da cancro può essere significativamente influenzata dall’attività fisica, e non solo in ottica preventiva, sebbene gli stili di vita modulino prioritariamente i fattori di rischio. La sedentarietà assieme ad alcool, fumo, alimentazione ipercalorica, grande presenza di carni rosse lavorare e processate, sono tra i fattori di rischio certi e classificati.
Un BMI superiore a 30 è diretto elemento che incrementa il cancro del colon retto, dell’esofago, del seno (in post menopausa), dell’endometrio, del pancreas, del rene, e in tutti i casi incrementa il rischio di recidiva.
“Un’attività fisica con impegno metabolico superiore a 8-9 METs è stata associata a una riduzione del 50% della mortalità sia per cancro che per tutte le cause. Ciò si è tradotto in un beneficio dal 4% al 6% in termini di sopravvivenza a 5 anni e a10 anni, lo stesso beneficio della chemioterapia“ ha affermato il Dr Bouillet Told su Cancer World.
Occorre partire dal presupposto che, malgrado si parli in senso generico di cancro, non esiste una sola tipologia di tumore, ma forme anche estremamente differenti fra loro. In linea generale il cancro è caratterizzato dalla crescita cellulare incontrollata che sfugge ai meccanismi fisiologici di controllo e regolazione, e si sviluppa come conseguenza di mutazioni e difetti genetici che possono essere favoriti da una serie di fattori di rischio. Questi ultimi possono riguardare l’esposizione a specifiche sostanze chimiche, anche in ambiente di lavoro, a radiazioni (incluse quelle solari), a virus e infezioni, così come al fumo, ad alimenti ricchi in sale, in acrilammide, idrocarburi policiclici aromatici, eccesso di alcool, fumo ecc.
L’attività fisica agisce in termini diretti e indiretti sulla riduzione del rischio tumorale. I meccanismi indiretti sono connessi con la riduzione delle masse adipose che viceversa sono un terreno che induce cambiamenti metabolici che favoriscono la nascita dei tumori (iperinsulinemia, citochine proinfiammatorie, iperglicemia ecc.) I meccanismi diretti riguardano il controllo della produzione ormonale, come ad esempio la riduzione degli estrogeni nelle donne, riduzione dell’IGF-1, ecc.; il controllo delle interleuchine e dello stato infiammatorio; il miglioramento del sistema immunitario e quindi la risposta a infezioni che poi possono incidere su alcune forme tumorali.
Anche per la prevenzione delle neoplasie per le quali l’attività fisica può operare positivamente, vi e è un meccanismo dose-risposta analogo a quelli già citati per altre condizioni e come conseguenza di questo fattore, attività più frequenti e intense (con l’esclusione dell’esercizio agonistico e acuto) hanno tassi di riduzione di alcune forme tumorali via via maggiori. Ad esempio passando da una riduzione dell’8% del cancro del colon per lavori a 10METs/h sino ad una riduzione del 30% per attività significativamente maggiori, ribadendo ancora che attività agonistiche o con impegno simil agonistico hanno una inversione di tendenza del rapporto rischio/beneficio (e non solo per quanto riguarda le neoplasie).
Altro elemento che fa comprendere la “potenza” dell’esercizio fisico è come questo possa intervenire nel ridurre le principali tipologie di tumore connesso al fumo in soggetti fumatori, con riduzioni dal 15% al 20% e oltre per organi bersaglio come vescica, reni, esofago, fegato ecc.
L’AFA non riguarda solo la prevenzione primaria del cancro, ma anche quella secondaria e terziaria. La fatica cancro-correlata infatti (causata sia come conseguenza diretta che come effetto avverso delle terapie) induce uno stato di sedentarietà con drammatica riduzione delle già compromesse funzionalità residue, oltre che con ripercussioni sulla sfera emotiva. Elemento non marginale se si pensa che la qualità della vita, e quindi anche gli aspetti emotivi, hanno una stretta correlazione con un maggior tasso di sopravvivenza e una ripresa più repentina nel post trattamento. L’esercizio fisico può perfino migliorare la risposta ad alcune terapie farmacologiche, come nel caso di alcuni linfomi che hanno registrato effetti quasi doppi nei soggetti attivi, riguardo altre classi farmacologiche migliora la tollerabilità ai trattamenti riducendo gli effetti collaterali (es.: uso di antraciclina con effetti cardiotossici in presenza di stress ossidativo); infine migliora la sopravvivenza di cardiomiociti poiché l’attività fisica stimola il rilascio di specifici fattori come la nuregolina.
Secondo l’ACSM, per le principali forme tumorali, sono consigliati 150 minuti di attività aerobica moderata, oltre all’aggiunta di sessioni per la forza e la flessibilità, sempre previo controllo medico e valutazione individuale.
AFA e gravidanza
La fase della gravidanza viene purtroppo vissuta ancora oggi, in molti casi, come un evento patologico per il quale vige il consiglio di ridurre al minimo attività fisica e sforzi fisici, prediligendo il riposto. Nella realtà dei fatti la situazione è assolutamente differente, e l’attività fisica si rivela uno strumento eccezionale per ottimizzare un periodo e un percorso fondamentale per la futura mamma e anche per il feto.
Anzitutto occorre considerare che il periodo della gravidanza, assieme a numerosi cambiamenti fisici, rappresenta un momento di grande predisposizione anche a cambiamenti negli stili di vita e nei comportamenti che poi si consolidano e permangono successivamente, quindi per alcune potrebbe rappresentare un momento di svolta e avvicinamento graduale all’attività fisica. Esistono tuttavia circostanza in cui questo non può avvenire, e dovranno essere individuate e segnalate dal proprio medico, tra queste è possibile annoverare eventuale presenza di patologie cardiache, patologie restrittive polmonari, ipertensione gestazionale, placenta previa, storia di precedenti parti prematuri, ecc. Altre situazioni possono essere borderline e vanno valutate caso per caso, ad esempio situazioni di precedente e radicata sedentarietà, ipertiroidismo, eventuali aritmie ecc.
Nei casi che non hanno elementi ostativi alla pratica, occorre infine saper riconoscere quei campanelli d’allarme che impongono di fermarsi e ricorrere al parere del medico, così come è importante essere consapevoli di quali attività e condizioni (anche ambientali) è opportuno tener conto per una pratica tranquilla e serena dell’attività fisica. A titolo esemplificativo, ma non esaustivo, eventuali sanguinamenti, capogiri, dolori addominali o al torace, percezione di fatica eccesiva o mal di testa, debolezza e dolore generale, sono tutti elementi che impongono di fermarsi e chiedere supporto medico.
In relazione ai tipi di attività e all’ambiente in cui praticarla, occorre sempre valutare che non vi sia un clima troppo caldo o troppo umido, per consentire l’agevole dispersione del calore ed evitare l‘ipertermia del feto. Appare evidente come in questa fase le attività in acqua possano essere una validissima soluzione.
L’AFA in gravidanza permette tra l’altro di prevenire il diabete gestazionale, l’ipertensione, la trombosi venosa, edemi e crampi, nausea ed affaticamento. Crea una generale condizione positiva anche dell’umore, e coadiuva efficacemente la riduzione del classico e diffuso mal di schiena.
Le attività fisiche tra cui scegliere sono numerose, oltre alle già citate attività in acqua, va benissimo il lavoro aerobico che coinvolga le grandi masse muscolari. Sempre a proposito di lavori in ambiente acquatico i vantaggi non si esauriscono con un più efficace controllo termico, ma permettono una riduzione della frequenza cardiaca a parità di intensità di lavoro svolto, oltre ad un miglior ritorno venoso. In ogni caso le alternative sono numerose, e non andrebbero scartate neppure quelle che prevedono l’ausilio dei sovraccarichi. Malgrado vi sia una certa refrattarietà a consigliare programmi di allenamento con i pesi, non sembrano emergere criticità nel caso di lavori adeguatamente somministrati e supervisionati da professionisti del movimento.
Al contrario l’inattività fisica riduce la performance generale e incrementa i rischi anche per il feto. Certamente le precauzioni specifiche per questa popolazione speciale esistono esattamente come per le altre sin’ora affrontate, e non solo in termini di termoregolazione ma, ad esempio, anche per quanto attiene gli effetti della rilassina, un ormone peptidico che aumenta il rischio di lesioni muscolo-scheletriche durante l’allenamento della forza, e suggerisce di evitare lavori eccessivi in termini di allungamento muscolare. Relativamente alla forza interessanti studi (citati in bibliografia) fanno emergere come a parità di sforzo percepito (RPE) nel corso di sessioni contro resistenza che hanno coinvolto diversi distretti anatomici, vi è stato un progressivo aumento dell’intensità reale e quindi degli adattamenti in termini di forza muscolare per attività come la leg extension o che hanno riguardato gli estensori lombari.
I benefici connessi all’AFA in gravidanza possono essere raggiunti con non meno di 2 sessioni settimanali di lavoro, che possono essere portate anche a 4-5 sedute, con conseguenti adattamenti che riguardano anche la riduzione pressoria, il miglioramento della sensibilità insulinica ecc. Molto spesso viene tuttavia segnalata una mancanza di tempo per poter “assolvere” anche all’attività fisica. In realtà la mancanza di tempo è spesso solo percepita ed è conseguenza di mancanza di sostengo e incoraggiamento da parte del partner e dei familiari.
Detto questo, certamente una grande cautela deve esserci soprattutto nei primi mesi di gravidanza, quando è sconsigliato cimentarsi con nuovi livelli di intensità o difficoltà tecnica, tanto più se si è iniziata exnovo una attività. Da evitare assolutamente anche discipline potenzialmente traumatiche, saltelli, cambi repentini di direzione. Per donne in precedenza sedentarie è opportuno un lavoro compreso fra il 60% e il 70% della FCM, mentre soggetti già allenati possono procedere anche a range adeguatamente più elevati, con l’assoluta esclusione di lavori isometrici o a glottide chiusa.
Come anticipato uno stile di vita attivo e il controllo del peso corporeo materno hanno significativi benefici anche sul nascituro, un BMI elevato sembrerebbe capace di influenzare le strutture mitocondriali dei cardiomiociti, oltre a determinare la presenza di metaboliti nel latte materno che possono favorire il sovrappeso del figlio. Al contrario uno stile di vita attivo favorisce la presenza di metaboliti che stimolano l’espressione del grasso bruno, già citato in relazione all’irisina.
Attività fisiche proporzionate al grado di allenamento della madre non compromettono la produzione di latte né la sua ottimale composizione, anzi si partecipa all’armonico sviluppo sia in fase fetale che neonatale.
AFA per tutti?
Il concetto di AFA dovrebbe chiudersi con una riflessione provocatoria. Se è vero come è vero quanto esposto in premessa, ossia che per AFA si intende in senso esteso ogni attività fisica adattata alle specifiche esigenze di una popolazione speciale, e avendo a sua volta definito le popolazioni speciali come quelle statisticamente meno numerose, è altrettanto vero che, data una popolazione totale, sottraendo da essa tutti i piccoli gruppo di popolazioni speciali, la quota residua sarà a sua volta numericamente inferiore alla somma dei gruppi sottratti. Di conseguenza anche la “popolazione normale” (mai virgolettato fu più opportuno) è a sua volta una minoranza, quindi una popolazione speciale.
Questo ragionamento apparentemente fine a se stesso, vuole sottolineare che l’attività fisica dovrebbe sempre essere adattata, adattata alle singole, specifiche ed univoche caratteristiche individuali. Tutte le volte che così non è, è come entrare in farmacia con un malanno, estrarre a caso una ricetta medica, e farsi casualmente assegnare un farmaco. Qualche effetto lo si potrà riscontrare, ma difficilmente sarà quello desiderato.
Bibliografia
- Gulinelli M., Pratica sportiva ed educazione, SdS Scuola dello Sport, XXIV
- Bellotti P.: Alcune caratteristiche della formazione fisica e dell’allenamento giovanile – Atleticastudi n. 4
- Manini T M, Pahor M. “ Physical activity and mantaining physical function in older adults” British Journal of Sports Medicine 2009; 43:28-31
- Patrick J. O’Connor et. Al Safety and Efficacy of Supervised Strength Training Adopted in Pregnancy
- salute.gov.it
Atti dei convegni:
- AA. VV. Istituto Oncologico Romagnolo: la salute in movimento
- Avancini A., Attività motoria e cancro: come acquistare fiducia nel proprio corpo
- Benelli P., L’attività motoria per la prevenzione e la salute
- Cannone A., L’attività fisica nelle diverse disabilità, Potenza 2016
- Ermolao A., investire sul movimento: strategie per la salute nel progetto integrato, Rovigo 2012
- Galeone D., promuovere il movimento per guadagnare salute, 8 aprile 2015
- Gambarara D., Esercizio fisico in gravidanza: come e quando, Reggio Emilia novembre 2003
- Gambarara D., Primo percorso di formazione per promuovere salute e benessere nelle comunità.
- Genovese P., La nutrizione e gli aspetti psicosociali correlati, Cagliari ottobre 2015
- Macchi C., L’attività fisica adattata (AFA), Firenze, 11 ottobre 2008
- Marchesini Reggiani e Di Luzio, Attività fisica nella donna con diabete in gravidanza: dal generico consigli ad una prescrizione strutturata.
- Parisio C., prescrivere l’esercizio fisico nel paziente obeso, Riccione 2017
Esperto in metodologia dell’allenamento e nutrizione applicata alla pratica sportiva.
Abilitato alla professione di Biologo Nutrizionista.
Direttore responsabile della rivista Scienza e Movimento
Professore a contratto: corso di laurea in Scienze delle Attività Motorie e Sportive, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Università degli studi di Foggia.
Professore a contratto: Master in Rieducazione Funzionale e Posturologia Applicata presso la facoltà di Scienze Motorie Università di Urbino
Fondatore e attuale Responsabile della formazione e divulgazione scientifica di: NonSoloFitness
Dottore Magistrale in: Scienze della Nutrizione Umana, e in Scienze Motorie.